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Lo scarabocchio: un'attività della mente.

di Rocco Quaglia

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Accanto al gesto semantico del sì e del no (Spitz, 1957), appare parallelamente un'altra coppia di gesti, che esprime significativamente lo sviluppo psichico del bambino: il gesto che “accarezza” e il gesto che “colpisce” (Quaglia, 2001). Il bambino impara precocemente a manipolare con affetto le cose che ama, cioè le cose “buone”, e a picchiare le cose che gli provocano dolore, cioè le cose “cattive”. Ora, è da questi gesti, vale a dire da gesti affettivamente carichi di espressività, che nasce la linea lasciata su un foglio. Ridurre i primi tracciati a “una casuale conseguenza del gesto” (Wallon, 1950, p. 7) oppure della mano (Burt, 1921), vuol dire considerare il prodotto grafico senza tener conto del livello di sviluppo del suo autore. Valutare l’attività grafica, prodotta in forma di scarabocchi, di bambini di due e di tre anni, in termini esclusivamente cinestetici, o di puro piacere motorio (Arnheim, 1954; Lowenfeld, 1952; Luquet, 1927), vuol dire non tener conto dei progressi compiuti dal bambino nel secondo anno di vita. L’emergere della rappresentazione mentale, e quindi dell’abilità di servirsi di un significante per evocare un significato, mal si collega ad un’attività che stimolerebbe un piacere di puro esercizio. Eppure, secondo la maggior parte degli studiosi del disegno infantile, il bambino non farebbe altro che esercitare i suoi arti. Lo scarabocchio viene così, di volta in volta, definito “sconsiderato” (Schreuder, 1902), “privo di senso” (Prantl, 1923), “impulsivo” (Bechterew, 1911), “disinteressato” (Fonzi, 1968), “ senza scopo” (Burt, 1921), “ di va e vieni” (Meyers, 1957), “ vegetativo-motorio” (Bernson, 1957). Anche da Piaget gli scarabocchi sono considerati una forma di esercizio e di puro gioco (Piaget e Inhelder, 1966). Da Luquet (1927) fino a Gardner (1980) e a Freeman (1980) non si parla, infatti, di disegno vero e proprio se non a partire da una riconoscibile corrispondenza formale tra il tracciato e l’oggetto che si voleva riprodurre, e tale corrispondenza sarebbe riconoscibile in modo stabile soltanto tra i quattro e i sei anni di età (Malchiodi, 1998). Il presupposto che la ragione principale per cui i bambini disegnano sia la produzione di rappresentazioni grafiche, o di raffigurazioni pittoriche (Thomas, Silk, 1990) non consente allo studioso di valutare adeguatamente il significato degli scarabocchi, né di riflettere sui motivi che rendono tanto gratificante la loro realizzazione. I primi scarabocchi fanno la loro comparsa nel secondo anno di vita e non cogliere nella loro produzione una intenzionalità è piuttosto un limite dell’osservatore e non del bambino. I gesti del bambino, a due ani di età, non sono mai soltanto motori; egli sa indicare, sa dire no con il dito, sa manipolare alcuni oggetti, sa afferrare, sa respingere, sa colpire, sa percuotere. Quando il bambino trasferisce alla linea le attività della sua mano allora egli disegna; ora, i primi disegni non tendono a rappresentare, mediante schemi grafici, gli aspetti formali della realtà, ma mediante l’espressività della linea, dicono di un mondo fisiognomicamente percepito. In queste pagine, attingendo alla letteratura esistente, si vuole delineare lo sviluppo delle prime fasi del disegno infantile, attraverso i diversi significati che la linea progressivamente acquista, dal gesto alla rappresentazione. 2. La linea come gesto 2.1 La nascita della linea Il bambino non scopre mai la linea per caso; le scoperte fatte per caso muoiono per mancanza di interesse. Sempre, noi adulti, attribuiamo al bambino la nostra forma mentis, e quindi il piacere della scoperta; tuttavia, quel che eccita il bambino non è la scoperta in sé, ma lo scoprirsi capace. Parlando degli inizi dell’attività grafica, si è sovente messo l’accento sull’apparente disinteresse del bambino per i suoi prodotti; ciò ha portato a ritenere che i bambini disegnino soprattutto per la soddisfazione che traggono dall’attività motoria del disegnare.